Andiamo a scuola, impariamo tante cose, tante discipline che spesso ci appaiono lontane dalla nostra vita quotidiana. Solo relativamente tardi nel processo di crescita biologica e culturale ci rendiamo conto di aver imparato anche cose che possiamo amare. Solo dopo aver trascorso molti anni, durante i quali ci siamo chiesti più volte a cosa potessero servire Dante, Piero della Francesca e Schöenberg, arriviamo a sorprenderci di fronte ad una poesia, appresa molti anni prima, ma capita solo ora. Che cosa accade nel nostro cervello, che ci permette di recuperare emozioni inespresse da giovani e che ora, quasi coraggiosamente, abbiamo la voglia di provare? Perché abbiamo vergogna di cantare quando un docente universitario ce lo chiede (quello che ci accade durante le lezioni di Analisi musicale che teniamo alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze), ma lo facciamo ad una festa tra amici, in discoteca, oppure in auto quando viaggiamo in serenità accanto al nostro amore? Perché abbiamo bisogno di emozionarci, lo facciamo e ce ne vergogniamo? Queste domande non possono trovare di certo risposte esaustive in questo scritto, ma ne costituiscono comunque la base di partenza, proprio perché ci poniamo l’obiettivo di indagare il ruolo delle emozioni di fronte ad una comunicazione importante come quella musicale. Le esperienze emozionali sono, quasi per tutti gli esseri umani, il motivo principale per il quale ci si avvicina alla musica. Gli studi in materia tradiscono però un carenza evidente. Ogni individuo, nella propria quotidianità, ha normali esperienze musicali, ed il ritardo teorico nello studio di questo fenomeno così diffuso si spiega forse nel seguente modo (Bowling N., Harwood N., 1986). In primo luogo, vi è una effettiva difficoltà a studiare le emozioni in laboratorio e, in secondo luogo, una visione forse distorta della scienza cognitiva, ha fatto perdere le speranze di giungere a risultati importanti. In terzo luogo, manca ancora un substrato comune ai diversi approcci scientifici e le varie teorie sono a volte contrastanti. Infine, lo studio delle emozioni e della loro fruizione attraverso l’esperienza musicale risente di un paradigma accademico distorto. In alcuni ambienti accademici, e non solo, si ritiene che la musica (quella spesso associata al sostantivo “vera”) debba essere ascoltata silenziosamente e rispettosamente. In altre parole, l’ascolto della musica richiederebbe una consapevolezza contenutistico- formale, certamente prerogativa di pochi esperti, rispetto ad un suo utilizzo quotidiano, più concreto e distratto che rispecchierebbe maggiormente la realtà. Si chiedono N. Juslin e J. Sloboda: “Perché la musica induce emozioni nell’ascoltatore? Le emozioni di cui facciamo esperienza in relazione alla musica, sono differenti rispetto alle emozioni che proviamo nella vita di ogni giorno? Perché differenti pezzi di musica sono associati a emozioni differenti? Gli esecutori sono in grado di comunicare emozioni specifiche agli ascoltatori?” (Juslin N., Sloboda J., 2005, p. 6). Il presente contributo tenta di rispondere a queste importanti domande e si articola in quattro paragrafi. Nel primo si presenta un approccio interdisciplinare, che si avvale del supporto della psicologia, dell’antropologia culturale, della filosofia e della sociologia. Nel secondo ci si concentra sulla figura primaria del compositore. Nel terzo e nel quarto paragrafo si analizzano rispettivamente i ruoli dell’esecutore e dell’ascoltatore.
Amare per conoscere
BERTIROTTI, ALESSANDRO
2009-01-01
Abstract
Andiamo a scuola, impariamo tante cose, tante discipline che spesso ci appaiono lontane dalla nostra vita quotidiana. Solo relativamente tardi nel processo di crescita biologica e culturale ci rendiamo conto di aver imparato anche cose che possiamo amare. Solo dopo aver trascorso molti anni, durante i quali ci siamo chiesti più volte a cosa potessero servire Dante, Piero della Francesca e Schöenberg, arriviamo a sorprenderci di fronte ad una poesia, appresa molti anni prima, ma capita solo ora. Che cosa accade nel nostro cervello, che ci permette di recuperare emozioni inespresse da giovani e che ora, quasi coraggiosamente, abbiamo la voglia di provare? Perché abbiamo vergogna di cantare quando un docente universitario ce lo chiede (quello che ci accade durante le lezioni di Analisi musicale che teniamo alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze), ma lo facciamo ad una festa tra amici, in discoteca, oppure in auto quando viaggiamo in serenità accanto al nostro amore? Perché abbiamo bisogno di emozionarci, lo facciamo e ce ne vergogniamo? Queste domande non possono trovare di certo risposte esaustive in questo scritto, ma ne costituiscono comunque la base di partenza, proprio perché ci poniamo l’obiettivo di indagare il ruolo delle emozioni di fronte ad una comunicazione importante come quella musicale. Le esperienze emozionali sono, quasi per tutti gli esseri umani, il motivo principale per il quale ci si avvicina alla musica. Gli studi in materia tradiscono però un carenza evidente. Ogni individuo, nella propria quotidianità, ha normali esperienze musicali, ed il ritardo teorico nello studio di questo fenomeno così diffuso si spiega forse nel seguente modo (Bowling N., Harwood N., 1986). In primo luogo, vi è una effettiva difficoltà a studiare le emozioni in laboratorio e, in secondo luogo, una visione forse distorta della scienza cognitiva, ha fatto perdere le speranze di giungere a risultati importanti. In terzo luogo, manca ancora un substrato comune ai diversi approcci scientifici e le varie teorie sono a volte contrastanti. Infine, lo studio delle emozioni e della loro fruizione attraverso l’esperienza musicale risente di un paradigma accademico distorto. In alcuni ambienti accademici, e non solo, si ritiene che la musica (quella spesso associata al sostantivo “vera”) debba essere ascoltata silenziosamente e rispettosamente. In altre parole, l’ascolto della musica richiederebbe una consapevolezza contenutistico- formale, certamente prerogativa di pochi esperti, rispetto ad un suo utilizzo quotidiano, più concreto e distratto che rispecchierebbe maggiormente la realtà. Si chiedono N. Juslin e J. Sloboda: “Perché la musica induce emozioni nell’ascoltatore? Le emozioni di cui facciamo esperienza in relazione alla musica, sono differenti rispetto alle emozioni che proviamo nella vita di ogni giorno? Perché differenti pezzi di musica sono associati a emozioni differenti? Gli esecutori sono in grado di comunicare emozioni specifiche agli ascoltatori?” (Juslin N., Sloboda J., 2005, p. 6). Il presente contributo tenta di rispondere a queste importanti domande e si articola in quattro paragrafi. Nel primo si presenta un approccio interdisciplinare, che si avvale del supporto della psicologia, dell’antropologia culturale, della filosofia e della sociologia. Nel secondo ci si concentra sulla figura primaria del compositore. Nel terzo e nel quarto paragrafo si analizzano rispettivamente i ruoli dell’esecutore e dell’ascoltatore.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.



